L’Eco di Bergamo (Sabato 23 Giugno 2012)

Cari Soci, Amici e Simpatizzanti riporto di seguito un articolo scritto la scorsa settimana, sull’ Eco di Bergamo, da Mons. Alberto Carrara, Delegato Vescovile per la Pastorale della cultura e delle comunicazioni sociali, perchè sia motivo di riflessione ed approfondimento per ognuno di noi.
“«Esistono gruppi di musulmani che fanno carità ai cristiani,
che li aiutano?» Domanda volutamente semplificatoria, come è evidente.
Lo chiedo a un amico che lavora in Caritas. Risposta: «No». I musulmani
non fanno carità ai cristiani. I cristiani, le istituzioni cristiane, invece,
aiutano in vari modi i musulmani e altri non cristiani che vivono sul nostro
territorio. Mi snocciola molte cifre per dimostrarmi un dato peraltro già
noto. Insisto: ma partecipano a iniziative di peso sociale, accettano di
«mettersi in gioco» di fronte alla crisi che sta toccando tutti?
«No», ancora una volta. Poi ci pensa e, con un po’ di fatica, ricorda un’iniziativa
«trasversale», alla quale, tempo fa, avevano partecipato cristiani e musulmani.
Ma era a favore del Bangladesh, dunque di un Paese musulmano. Si può perciò
ragionevolmente pensare che la tendenza è quella. I musulmani aiutano i
loro simili, i fratelli musulmani, non «gli altri», non i cristiani. I
cristiani, invece, aiutano, sentono anzi il dovere di aiutare tutti, i
musulmani e gli altri. Un commentatore informato sulle discussioni al riguardo
direbbe che non esiste reciprocità, qui, come non esiste altrove.
È un
problema interessante e complesso, che, proprio per questo, non va risolto
sulla base del semplice principio di reciprocità. Non ci si può limitare
a denunciare il fatto che i musulmani ricevono senza dare mentre, spesso,
i cristiani danno senza ricevere. Il cristiano è erede di una sensibilità
che, in questo campo, si fa spesso risalire alla parabola del buon samaritano
come il testo che spiega in termini simbolici, meglio di tutti possibili
ragionamenti. Dunque il celebre racconto evangelico mette in scena «un
uomo» che «scendeva da Gerusalemme a Gerico». L’uomo incappa nei briganti
che lo derubano e lo percuotono a sangue, lasciandolo mezzo morto. Passano
un sacerdote, uno dei tanti che faceva servizio nel tempio di Gerusalemme,
e un levita, un inserviente, anche lui impiegato nel tempio. Tutti e due
passano oltre. Invece un samaritano che è in viaggio sulla stessa strada
«vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino».
Il particolare urticante
per un ascoltatore ai tempi di Gesù è che il personaggio esemplare del
racconto è, appunto, il samaritano. I samaritani, abitanti della Samaria,
regione centrale della Terra Santa, seguono una loro particolare religione,
sono considerati eretici e sono evitati, spesso cordialmente odiati dagli
ebrei osservanti di Gerusalemme. Ora Gesù prende, precisamente, un personaggio
ambiguo e «lontano» e lo presenta come esemplare: i suoi discepoli devono
fare come il samaritano eretico: amare tutti, anche i lontani, i diversi.
La carità evangelica non premia i vicini, ma rende vicini i lontani. I
gesti del samaritano sono, infatti, i tipici gesti della «prossimità» come
si ama dire oggi: «Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi
olio e vino (il vino e l’olio erano usati come disinfettanti)». Prossimità
sorprendente che nasce là dove non c’è e dove nessuna si aspetta che ci
sia.
Questo è il testo fondante dell’atteggiamento cristiano verso il
prossimo («prossimo», cioè «vicino»: il termine nasce proprio dalla parabola
del buon samaritano). Il nostro problema, allora, si può porre in termini
secchi. È logico, ragionevole, spontaneo amare i vicini e lasciar perdere
i lontani. Solo che, se fa ciò che è logico e naturale, il cristiano perde
la propria identità. Perché si è cristiani non perché si amano i vicini,
ma perché si amano anche ? anche, certo, non soltanto ? i lontani. La carità
cristiana è asimmetrica e solo se sa essere asimmetrica è cristiana.
Resta un problema che è sociale e, al limite, politico. Il musulmano che
ama i suoi simili propone, alla lunga, una società dove i confini si restringono
e dove si tende ad escludere «gli altri». Il cristiano che deve amare i
lontani propone una società dove i confini si allargano e dove «gli altri»
si includono. La visione di società che nasce dalle due diverse visioni
religiose è diversissima, al limite contrastante. E si conferma, di conseguenza,
una preoccupazione: l’islam, e la sua cultura «esclusiva» come può convivere
con la cultura «inclusiva» dell’Occidente e delle sue lontane radici cristiane?
Alberto Carrara